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Esiste da sempre in Italia un problema di imposte. Esiste non perché si debbano pagare, ma perché quello che ritorna in servizi è scarso o inadeguato. È vero, non siamo i più tartassati, altre realtà, come quelle scandinave lo sono più di noi, ma vogliamo mettere a confronto il servizio dato ai cittadini danesi rispetto a quelli italiani? Pagare le tasse è un dovere, ma se si tratta di decidere tra la sopravvivenza della famiglia e lo Stato, il cittadino, l’imprenditore, non ha dubbi. Il punto di non ritorno è ormai alle porte. Quello che sempre più spesso ci sentiamo dire dalle nostre aziende non è non voglio pagare, ma bensì non posso pagare. A questo punto non si tratta più di scelta, ma di necessità. Un necessità che è sempre più mescolata alla rabbia rivolta verso chi pretende senza dare mai nulla in cambio. Gli imprenditori e i cittadini sono stanchi. Fino a quando ci potranno spremere prima che il popolo decida di riprendersi l’autorità che gli spetta? La corda è tesissima e gli imprenditori sono in prima linea. In molti decidono di chiudere bottega e sanare i debiti nei confronti dello Stato, indebitandosi a loro volta e lasciando sulla strada i dipendenti. Quello che rimane è la rabbia nei confronti dell’Inps, dell’Agenzia delle Entrate, di Equitalia e di quanti hanno permesso che si arrivasse a questo.

Risparmio con la cedolare secca

I provvedimenti sanzionatori sul nuovo obbligo di comunicazione dei lavoratori a chiamata dovranno essere adottati con estrema cautela almeno fino a quando non verrà emanato il decreto ministeriale che individua le modalità semplificate di comunicazione; il lavoro somministrato potrà essere avviato anche dopo il raggiunto tetto di 36 mesi; non si applica la nuova convalida delle dimissioni quando la cessazione origina in un accordo raggiunto nelle sedi protette.
Sono, questi, i principali contenuti della circolare 18/2012 del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali con cui
ieri sono stati forniti i primi chiarimenti alla legge 92/2012, in vigore dallo stesso giorno. Sotto la lente ministeriale fono finiti anche alcuni profili dei contratti di apprendistato (in materia di clausole di stabilizzazione), di lavoro accessorio (a livello di campo applicativo e regime transitorio) e circa il fenomeno delle dimissioni "in bianco" (si leggano anche gli altri articoli in pagina). Da parte degli operatori erano particolarmente attesi i chiarimenti sul contratto intermittente o a chiamata. A partire da ieri, infatti, sono in vigore le nuove regole di avvio del rapporto sotto il profilo soggettivo. Si tratta di lavoratori con più di 55 anni di età e con soggetti con meno di 24 anni di età (ossia 23 anni e 364 giorni), fermo restando, in tale caso, che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età (ossia 24 anni e 364 giorni).
Nella circolare si precisa che la violazione di questa norma determina la «trasformazione» del rapporto a tempo pieno e indeterminato. Si ritiene, tuttavia, che una volta raggiunta l'età, l'azienda abbia sempre la possibilità di avviare il contratto avvalendosi di una delle altre ipotesi previste dalla legge. Secondo il Ministero, dal 18 luglio 2012 sono state abrogate le ipotesi di lavoro a chiamata per periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell'anno per effetto dell'abrogazione dell'articolo 37 del Dlgs 276/2003, a meno che questa ipotesi non sia consentita dalla contrattazione collettiva. Su questo punto qualche dubbio rimane: il coordinato articolo 34 della stessa legge Biagi stabilisce, infatti, che il contratto di lavoro intermittente può essere concluso per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, "ovvero" per periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno. Quindi, i contratti potrebbero intervenire solo sulle esigenze e non anche sui periodi predeterminati con riferimento ai quali l'accordo nel contratto individuale sembrerebbe sufficiente. Da ieri è scattato anche il nuovo obbligo di comunicazione. L'adempimento può essere fatta anche nella stessa giornata di avvio del rapporto, purché prima che inizi la prestazione. Spetterà, poi, a un decreto individuare le ipotesi più semplificate in linea con la tipologia flessibile del rapporto e fino ad allora il corpo ispettivo dovrà essere
cauto ad irrogare sanzioni. Nel frattempo, sono attivi fax e posta elettronica reperibili sul sito del ministero del Lavoro.
La comunicazione riguarda tutti i rapporti, è in forma libera e deve contenere soltanto i giorni e non anche l'ora in cui
è resa la prestazione. Una volta trascorso il periodo di "tolleranza" un lavoratore presente in azienda in periodi diversi da quelli comunicati, determina una sanzione amministrativa per la mancata comunicazione che va da 400 a 2.400 euro.
Un'altra importante novità riguarda la somministrazione a tempo determinato, che la riforma Fornero computa per il
raggiungimento del limite dei 36 mesi. Sul punto il Ministero spiega che il tetto dei 36 mesi rappresenta un limite alla
stipulazione di contratti a tempo determinato e non al ricorso alla somministrazione di lavoro. Ne consegue che
raggiunto tale limite il datore di lavoro potrà comunque ricorrere alla somministrazione a tempo determinato con lo
stesso lavoratore anche successivamente al raggiungimento dei 36 mesi. Peraltro, ai fini del computo dovranno essere presi in considerazione solo le missioni iniziate dal 18 luglio e non anche quelle precedenti.
Per quanto riguarda il lavoro a termine, poi, la circolare 18 chiarisce che per avvalersi del contratto senza indicare la causale tra le parti non deve esserci stato, anche in passato, alcun rapporto di lavoro di natura subordinata (sono
invece ammessi rapporti di natura autonoma). Infine, la circolare affronta le novità in tema di collocamento obbligatorio. A partire dallo scorso 18 luglio i contratti a tempo determinato di durata fino a 9 mesi si computano ai fini del calcolo della quota di riserva. Ad ogni modo le aziende hanno a disposizione 60 giorni per adeguarsi anche se è in arrivo nel Decreto sviluppo una modifica alla legge 92/2012 che ripristina l'esclusione, ma solo per i contratti di durata fino a 6 mesi.

Lavoratori ammessi
Da ieri il contratto intermittente può essere utilizzato da lavoratori con più di 55 anni di età o con meno di 24 anni (in
questo caso le prestazioni possono essere svolte entro il venticinquesimo anno). Se si viola tale norma, è prevista
la trasformazione del rapporto a tempo pieno e indeterminato

Periodi esclusi
Secondo la circolare è stata abrogata la possibilità di utilizzare il lavoro a chiamata per periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell'anno, a meno che questa ipotesi non sia consentita dalla contrattazione collettiva. Questa lettura però contrasta con l'articolo 34 della legge Biagi


Soglia massima
Per quanto concerne la somministrazione a tempo determinato, la circolare precisa che il tetto dei 36 mesi costituisce un limite per la sottoscrizione solo per i contratti a tempo determinato e non anche per la somministrazione. Quindi, una volta raggiunta la soglia dei 36 mesi il datore di lavoro può continuare ad avvalersi dello stesso addetto solo con la somministrazione.


La partenza
Altra precisazione riguarda il momento da cui si devono conteggiare i 36 mesi: vanno prese in considerazione solo le missioni iniziate da ieri, 18 luglio 2012, e non anche quelle precedenti


Senza causale
La riforma ha previsto che si possa non indicare la causale a fronte del primo contratto di lavoro a termine che abbia durata massima di 12 mesi e non sia prorogato. È anche possibile che il datore di lavoro stipuli più contratti acausali, fino al 6% degli addetti a tempo indeterminato, nell'ambito del lancio di un nuovo prodotto, la proroga di una commessa, un cambiamento tecnologico purché ciò sia previsto dalla contrattazione collettiva.


La precisazione
La circolare ribadisce che per evitare la causale non ci deve essere stato alcun precedente rapporto di natura subordinata tra impresa e lavoratore

(Fonte: IlSole24Ore)

Doppia stretta sulla deduzione per i veicoli strumentali di imprese e autonomi e per le auto aziendali concesse in uso promiscuo ai dipendenti. La riforma del lavoro (articolo 4, commi 72 e 73, della legge 92/2012) ridurrà fortemente, a partire dal periodo d'imposta 2013, la deducibilità delle spese sostenute: la percentuale sarà ridotta dal 40% al 27,5% per i veicoli strumentali e dal 90% al 70% per le auto ai dipendenti. La limitazione degli sconti fiscali prevede, però, qualche esenzione: non si applica ad agenti e rappresentanti, tassisti, imprese di autonoleggio, autoscuole e dipendenti e collaboratori autorizzati a utilizzare per le trasferte veicoli di loro proprietà o noleggiati.
L'applicazione Ma come funzionerà questo doppio giro di vite? La circolare 47/E/1998 (punto 5.1) ha ritenuto che la percentuale di deducibilità dei mezzi dati in uso promiscuo ai dipendenti vada applicata all'intero ammontare dei costi riferiti alle autovetture, compreso l'importo pari al fringe benefit tassato in capo al dipendente. In caso di assegnazione dell'autovettura a un collaboratore (o amministratore della società) le spese eccedenti il fringe benefit dovrebbero essere deducibili in misura pari al 27,5%, ferma restando la deduzione di un importo pari al fringe benefit come spesa per prestazioni di lavoro, se effettivamente sostenuta. Resta ferma l'elevazione della percentuale all'80% per i veicoli utilizzati dagli agenti o rappresentanti di commercio (compresi i promotori finanziari e gli agenti di assicurazione ma non gli agenti immobiliari, così la circolare 48/E del 1998, punto 2.1.3.5).


Restano integralmente deducibili le spese relative:
- ai veicoli adibiti a uso pubblico, per i quali vi sia un atto rilasciato dalla Pa che attesti tale destinazione (come per il servizio taxi);
- ai veicoli destinati a essere utilizzati esclusivamente come beni strumentali nell'attività propria dell'impresa, cioè «senza i quali l'attività stessa non può essere esercitata» (circolari 37/E del 1997 e 48/E del 1998), vale a dire le autovetture possedute dalle imprese di noleggio o utilizzate dalle scuole guida.


Il comma 73 dell'articolo 4 della legge 92/2012 prevede che le riduzioni si applichino, in caso di periodo d'imposta coincidente con l'anno solare, a decorrere dal 2013 (quindi in Unico 2014). È necessario, però, tenerne conto già in sede di determinazione degli acconti per tale anno, assumendo quale imposta del 2012 quella che si sarebbe determinata applicando le dette riduzioni. Le nuove disposizioni valgono non solo per i titolari di reddito d'impresa ma anche per gli autonomi: per questi ultimi le limitazioni operano limitatamente a un veicolo per ciascun artista o professionista o socio o associato. Le norme si applicano indipendentemente dal titolo giuridico in base al quale l'autovettura è utilizzata (proprietà, leasing, noleggio).


Veicoli e spese interessati
I veicoli interessati sono quelli contemplati nell'articolo 164 del Tuir: autovetture e autocaravan, ciclomotori e motocicli (con esclusione dei veicoli a motore alla cui produzione o al cui scambio è diretta l'attività dell'impresa, anche se temporaneamente utilizzati per fini pubblicitari o promozionali).
Si deve trattare di veicoli riconducibili al titolare del reddito di lavoro autonomo o d'impresa, diversi da quelli di proprietà o noleggiati dai dipendenti o dai titolari di rapporti di collaborazione coordinata o continuativa (quali gli amministratori) autorizzati ad utilizzarli per trasferte fuori della sede di lavoro. In questi ultimi casi resta fermo, infatti, il disposto dell'articolo 95, comma 3, del Tuir, in base al quale la spesa deducibile è limitata, rispettivamente, al costo di percorrenza o alle tariffe di noleggio relative ad autoveicoli di potenza non superiore a 17 cavalli fiscali o 20 se diesel.
Tra le spese interessate sono compresi gli ammortamenti, i canoni di leasing e di noleggio, le spese di impiego (come carburanti, lubrificanti, pedaggi autostradali, ecopas), le spese di custodia (per esempio autorimessa), le spese di manutenzione e di riparazione, nonché l'Iva indetraibile. Si ritiene che i componenti dei veicoli aziendali (per esempio l'autoradio), non essendo suscettibili di autonoma utilizzazione, vadano portati a incremento del costo del bene nel quale sono utilizzati, così come la tassa di immatricolazione. Infine, l'articolo 164, comma 2, del Tuir prevede che le plusvalenze e le minusvalenze relative ai mezzi di trasporto ivi indicati rilevano «nella stessa proporzione esistente tra l'ammontare dell'ammortamento fiscalmente dedotto e quello complessivamente effettuato». Di conseguenza la minor quota di ammortamento deducibile a partire dal 2013 comporterà la riduzione della plusvalenza o minusvalenza realizzata a seguito della cessione del veicolo.

L'utilizzo in pubblico del decoder domestico, e della smart card, fa scattare la condanna per violazione delle norme sul diritto d'autore. Lo precisa la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 20876 del 30 maggio 2012.
Ad aprire il caso l'accusa, mossa nei confronti di un uomo, di aver utilizzato la smart card e il decoder – lecitamente detenuti per uso domestico – per diffondere, all'interno di un pubblico esercizio, una partita di calcio. Ma il pubblico ministero ha sostenuto che l'evento, trasmesso su un'emittente ad accesso condizionato, non poteva essere liberamente fruito dai clienti del bar e ha contestato all'uomo la violazione dei diritti d'autore. Il tribunale,
disattesa l'aspettativa del procuratore, ha emesso una sentenza di assoluzione, ma la Corte di secondo grado ha ribaltato la decisione, condannando l'imputato per violazione dell'articolo 171-ter, lettera e), della legge 633/41 sul diritto d'autore. Di qui, il ricorso per Cassazione: il titolare di una smart card che, autorizzato alla decodifica presso la sua abitazione, usi il sistema all'esterno della residenza, si limiterebbe, sostiene il ricorrente, a «utilizzare» il dispositivo, senza dar luogo alla «diffusione» punita dalla legge. Egli, pertanto, avrebbe, come si legge nella sentenza, «semplicemente compiuto una "ricezione/trasmissione" del servizio criptato, non consentita dal contratto di distribuzione ma non per questo anche penalmente rilevante».
La Cassazione, però, non concorda con la ricostruzione dell'imputato, confermandone la colpevolezza. Quanto asserito in ricorso, spiegano i giudici, presupporrebbe una distinzione tra l'attività di «utilizzazione» e quella di «diffusione», che la norma non prevede. La legge sul diritto d'autore, infatti, non detta una disciplina separata per le ipotesi di uso non consentito del dispositivo e di illegittima trasmissione del programma. Tanto è vero che l'articolo 171-ter, lettera e), della legge 633/41 non esige, ai fini integrativi del reato, la diffusione dell'evento «a una platea indeterminata di soggetti», punendo chi, in assenza di accordo con il legittimo distributore, «ritrasmette o diffonde con qualsiasi mezzo» un servizio criptato, ricevuto grazie ad apparati di decodifica.
L'intento della legge, dunque – puntualizza la Corte – è quello di criminalizzare una serie di comportamenti, accomunati dalla «finalità di tutelare l'impresa erogatrice del servizio televisivo contro qualsiasi condotta abusiva». Il criterio distintivo rispetto al mero illecito civilistico (inizialmente ravvisato dal tribunale, che liberò il ricorrente dalle accuse) sarà, pertanto, rappresentato dal dolo specifico, legato all'uso non personale e alla finalità di lucro.
Ancora – conclude la Cassazione – va considerato che la legge sul diritto d'autore esige, per l'esecuzione pubblica di un'opera (cinematografica, musicale, di spettacolo), il consenso dell'autore e, per esso, della Siae. L'imputato, dunque, pur avendo «acquistato», per contratto, la visione dell'evento calcistico, avrebbe potuto diffonderlo in pubblico «solo se a tanto esplicitamente autorizzato». In caso contrario, l'uso non a scopo di lucro sarebbe dovuto restare limitato «nell'ambito della famiglia».