Sponsorizzazioni e pubblicità "antieconomiche" sotto la lente del fisco. È questo il nuovo filone di indagini che sta interessando a tappeto intere regioni di Italia. L'iniziativa è partita dalla Emilia Romagna, ma pare interessare anche altre regioni, come Marche, Umbria e Toscana. Non è la prima volta che le sponsorizzazioni vanno sotto la lente del fisco: in passato, in molti casi, sono state scoperte frodi, anche ingenti, collegate all'emissione di fatture per operazioni inesistenti. Questa volta invece, l'agenzia delle Entrate non contesta l'effettività dell'operazione, ma la sua antieconomicità, in altre parole ritiene che queste spese siano sovente inutili (in tutto o in parte) per gli obiettivi aziendali.

Il percorso di indagine parte dai dati risultanti dall'elenco clienti (e quindi fatture emesse) degli enti non commerciali e associazioni sportive dilettantistiche. Questi soggetti determinano il reddito e l'Iva forfettariamente. Le imprese che ricevono le fatture, invece, deducono ordinariamente le imposte. Da qui, almeno potenzialmente, può nascere l'interesse di chi riceve la fattura a richiedere la certificazione di importi superiori rispetto al valore della prestazione. L'Agenzia, una volta eseguito lo screening, si è mossa sul dichiarato presupposto che «appare poco credibile rinunciare a parte del profitto aziendale per corrispondere somme ad associazioni ed enti per sponsorizzazioni e/o pubblicità, talvolta anche incomprensibili se riferite all'attività esercitata e alla clientela dello sponsor, e non in grado di favorire l'incremento del fatturato, anche in considerazione dei luoghi in cui la pubblicità o sponsorizzazione

viene eseguita, ed il numero limitato e tipologia degli spettatori che assistono all'evento sportivo».

A questo punto, i costi esaminati vengono ritenuti antieconomici e, quasi per intero, indeducibili per difetto del requisito di inerenza, per le seguenti ragioni: entità del costo, ritenuto elevato; proporzione del costo rispetto all'utile conseguito nello stesso periodo di imposta.

Il costo viene ritenuto elevato facendo riferimento:  ad altre forme pubblicitarie, ritenute dall'amministrazione più incisive e meno onerose (ma, a questo proposito, l'ufficio non precisa quale siano tali forme né il loro costo); alle fatture emesse dalla medesima associazione ad altre imprese, di importo inferiore; alla mancata produzione da parte del soggetto sottoposto al controllo di documentazione attestante l'avvenuta sponsorizzazione/pubblicità.

Relativamente alla sproporzione del costo, invece, gli accertamenti confrontano l'utile con le spese in questione, ed evidenziano che la società avrebbe incredibilmente rinunciato a un profitto per destinarlo a «un'attività senza prospettive concrete di ritorno pubblicitario, concretizzando quindi un comportamento chiaramente antieconomico». L'ufficio ritiene quindi indeducibili tali costi e indetraibile la relativa Iva nella percentuale dell'80% calcolata sull'utile che sarebbe stato conseguito in assenza delle spese (si vedano gli esempi in pagina). Questi accertamenti pongono una questione di fondo che probabilmente va anche al di là della sindacabilità delle scelte imprenditoriali da parte del fisco. Nella specie, infatti, l'ufficio ritiene addirittura scontato che la società non possa "sbagliare" un investimento pubblicitario né che possa effettuarlo sulla base di valutazioni diverse dal mero confronto (peraltro a posteriori) tra costo e utile di quell'anno. Occorre poi ricordare che l'ufficio interviene a distanza di anni ed è semplice trarre dei giudizi sui dati di bilancio e quindi, in ultima analisi, confrontare quanto speso e quanto guadagnato. L'imprenditore, invece, quando assume determinate decisioni, non conosce l'utile che conseguirà quell'anno né, tantomeno, quanto economicamente possa fruttargli un investimento in pubblicità.

FONTE: ILSOLE24ORE

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