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Diverse volte ci siamo soffermati sull’attuale tema relativo alla possibilità, per gli Uffici finanziari, di estendere l’indagine bancaria nei confronti di soggetti diversi dal contribuente accertato, in quanto vi può essere fondato motivo di ritenere che l’intestazione del conto corrente sia fittizia (si vedano “Accertamenti bancari e giudicato esterno di nuovo al vaglio della Corte” del 14 settembre 2010 e “La mancata risposta del contribuente legittima l’accertamento bancario” del 16 ottobre 2010).
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12624 depositata ieri, è tornata sull’argomento, facendo luce su un aspetto molto delicato, sul quale la giurisprudenza appariva contrastante.
Un breve riepilogo della disciplina contribuisce a chiarire meglio il concetto.
Ai fini IVA e delle dirette, i prelevamenti e i versamenti che emergono dai conti correnti del contribuente si presumono ricavi o compensi non dichiarati ove non ve ne sia traccia nella contabilità, a meno che il contribuente non fornisca la prova contraria, quindi dimostri che ad esempio il prelevamento attiene a una fattispecie fiscalmente irrilevante. Tanto premesso, è ormai pacifico che l’indagine bancaria si estenda anche ai conti correnti intestati a soggetti terzi (si pensi alla moglie del contribuente, o, come nella specie, ai soci della società di capitali “ristretta” sottoposta ad accertamento). Sull’operatività della presunzione legale in quest’ultimo caso la giurisprudenza, quantomeno secondo una prima impressione, si è pronunciata in maniera non omogenea: infatti, a volte è stata ritenuta necessaria la dimostrazione circa la fittizietà del conto, altre volte è stato affermato che, in casi peculiari come le società di capitali
“ristrette”, la prova dell’intestazione fittizia non va fornita. Nella sentenza in commento, i giudici, in prima battuta, evidenziano che deve essere disattesa l’opinione, sostenuta dal contribuente, secondo cui “la indagine bancaria e la
utilizzazione dei dati rilevati dalle movimentazioni sui conti bancari intestati a soggetti diversi dal contribuente rimane necessariamente subordinata alla previa dimostrazione da parte della Amministrazione finanziaria che le somme giacenti sui conti dei soci sono di fatto nella esclusiva disponibilità della società medesima”.

Vengono richiamati alcuni precedenti, ove i giudici avevano specificato che il rapporto familiare e la ristretta compagine societaria sono elementi indiziari sufficienti per giustificare la riferibilità al contribuente delle movimentazioni
effettuate. Il contrasto giurisprudenziale richiamato, invero, è solo apparente, siccome la più recente giurisprudenza non esonera l’Ufficio dall’onere probatorio, ma afferma che tale prova sia rinvenuta “nel requisito di serietà e gravità dell’elemento indiziario costituito dallo stretto legame parentale”.
Viene affermato il principio di diritto in forza del quale nell’accertamento nei confronti di società di capitali, è ammesso accedere ai conti/depositi intestati ai soci e, in caso di ristretta compagine sociale, anche ai familiari dei soci, qualora sussistano fondati sospetti che la società abbia effettuato operazioni soggettivamente inesistenti.
La presunzione semplice che legittima l’estensione dell’indagine bancaria (e della consequenziale presunzione legale) nei confronti dei conti intestati ai soci è integrata quando non vi siano altre fonti produttive di reddito dichiarate dai soci, e sussista una ristretta base societaria, tale per cui, nonostante la società sia giuridicamente di capitali, “viene di fatto a replicare la stessa formula organizzativa-gestionale delle società di persone”.